Il grande sogno
A 9 anni, Giovanni ha il primo, grande sogno che marchierà tutta la sua
vita. Vede una turba di ragazzi poverissimi che giocano e bestemmiano.
Un Uomo maestoso gli dice: «Con la mansuetudine e la carità dovrai
conquistare questi tuoi amici», e una Donna altrettanto maestosa
aggiunse: «Renditi umile, forte e robusto. A suo tempo tutto
comprenderai».
Gli anni che seguirono furono orientati da quel sogno. Figlio e madre
videro l'indicazione di una strada per la vita.
A far del bene ai ragazzi, Giovanni ci prova subito. Quando le trombe
dei saltimbanchi annunciano una festa patronale sulle colline intorno,
Giovanni ci va, e si mette in prima fila davanti ai ciarlatani che danno
spettacolo. Studia i trucchi dei prestigiatori, i segreti degli
equilibristi. Una sera di domenica, Giovanni dà il suo primo spettacolo
ai ragazzi delle case vicine. Fa miracoli di equilibrio con barattoli e
casseruole sulla punta del naso. Poi balza sulla corda tesa tra due
alberi, e vi cammina tra gli applausi dei suoi piccoli spettatori. Prima
del brillante finale, ripete la predica sentita alla Messa del mattino,
e invita tutti a pregare. I giochi e la parola di Dio cominciano a
«trasformare» i suoi piccoli amici, che con lui pregano volentieri.
Giovanni è sicuro che, per far del bene a tanti ragazzi, deve studiare e
diventare prete. Ma il fratello Antonio, che ha già 18 anni ed è un
contadino rozzo, non ne vuol sapere. Gli getta via i libri, lo picchia.
Una gelida mattina del febbraio 1827, Giovanni parte da casa e va a
cercarsi un posto di garzone. Ha solo 12 anni, ma per le violente
litigate con Antonio, in casa la vita è ormai impossibile. Per tre anni
lavora come ragazzo di stalla nella cascina Moglia, vicino a Moncucco.
Conduce le bestie al pascolo, munge le mucche, porta il fieno fresco
nelle mangiatoie, guida i buoi che arano i campi. Nelle lunghe notti
d'inverno e seduto all'ombra degli alberi d'estate (mentre le mucche
brucano intorno) torna ad aprire i suoi libri, a «studiare».
Tre anni dopo, Antonio si sposa. Giovanni può tornare a casa e
frequentare prima le scuole di Castelnuovo, poi quelle di Chieri. Per
mantenersi impara a fare il sarto, il fabbro, il barista, dà
ripetizioni.
È intelligente e brillante, e attorno a lui si coagulano i migliori
ragazzi della scuola. Con loro fonda il suo primo gruppo, la «Società
dell'allegria».
A vent'anni, nel 1835, Giovanni Bosco prende la decisione più importante
della sua vita: entra in Seminario. Sei anni di studi intensi, che lo
portano al sacerdozio.
Diventa «Don Bosco»
5 giugno 1841. L'Arcivescovo di Torino consacra prete Giovanni Bosco.
Ora «Don Bosco» potrà finalmente dedicarsi ai ragazzi disperati che ha
visto in sogno. Va a cercarli per le strade di Torino.
«Fin dalle prime domeniche - testimoniò un ragazzo che incontrò in quei
primi mesi, Michelino Rua - andò per la città, per farsi un'idea delle
condizioni morali dei giovani». Ne rimase sconvolto. I sobborghi erano
zone di fermento e di rivolta, cinture di desolazione. Adolescenti
vagabondavano per le strade, disoccupati, intristiti, pronti al peggio.
Li vedeva giocare a soldi agli angoli delle strade con la faccia dura e
decisa di chi è disposto a tentare qualunque mezzo per farsi largo nella
vita.
Accanto al mercato generale della città (che in quel momento aveva 117
mila abitanti) scoprì un vero «mercato delle braccia giovani». «La parte
vicina a Porta Palazzo - scriverà anni dopo - brulicava di merciai
ambulanti, venditori di zolfanelli, lustrascarpe, spazzacamini, mozzi di
stalla, spacciatori di foglietti, fasservizi ai negozianti sul mercato,
tutti poveri ragazzi che vivacchiavano alla giornata».
Quei ragazzi per le strade di Torino erano un «effetto perverso» di un
avvenimento che stava sconvolgendo il mondo, la «rivoluzione
industriale». Nata in Inghilterra, aveva passato rapidamente la Manica e
scendeva a sud. Avrebbe portato un benessere mai pensato nei secoli
precedenti, ma l'avrebbe fatto pagare con un pauroso costo umano: la
questione operaia, gli ammassi di famiglie sotto-povere alle periferie
delle città, immigrate dalle campagne in cerca di fortuna.
Ragazzi in prigione
L'impressione più sconvolgente, don Bosco la provò entrando nelle
prigioni. Scrisse: «Vedere un numero grande di giovanetti, dai 12 ai 18
anni, tutti sani, robusti, d'ingegno sveglio, vederli là inoperosi,
rosicchiati dagli insetti, stentare di pane spirituale e materiale, fu
cosa che mi fece orrore».
Uscendo, aveva preso la sua decisione: «Devo impedire ad ogni costo che
ragazzi così giovani finiscano là dentro». Le parrocchie in Torino erano
16. I parroci sentivano il problema dei giovani, ma li aspettavano nelle
sacrestie e nelle chiese per i catechismi comandati. Non si accorgevano
che, sotto l'ondata della crescita popolare e dell'immigrazione, quegli
schemi di comportamento erano saltati. Occorreva tentare vie diverse,
inventare schemi nuovi, provare un apostolato volante tra botteghe,
officine, mercati. Molti preti giovani ci provavano.
Don Bosco avvicinò il primo ragazzo immigrato 1'8 dicembre 1841. Tre
giorni dopo attorno a lui erano in nove, tre mesi dopo venticinque,
nell'estate ottanta. «Erano selciatori, scalpellini, muratori,
stuccatori che venivano da paesi lontani», ricorda nelle sue brevi
Memorie .
Nasce il suo oratorio . Non è una faccenda di beneficenza, né si
esaurisce alla domenica. Cercare un lavoro per chi non ne ha, ottenere
condizioni migliori per chi è già occupato, fare scuola dopo il lavoro
ai più volenterosi diventa l'occupazione fissa di don Bosco.
Alcuni dei suoi ragazzi, però, alla sera non sanno dove andare a
dormire. Finiscono sotto i ponti o negli squallidi dormitori pubblici.
Tenta due volte di dare ospitalità: la prima gli portano via le coperte,
la seconda gli svuotano anche il piccolo fienile.
Ritenta, ottimista testardo. Nel maggio 1847 ospita nelle tre stanze che
ha affittato nel quartiere basso di Valdocco, e dove abita con sua
madre, un ragazzotto immigrato dalla Valsesia. - Avevo tre lire quando
sono arrivato a Torino - dice il ragazzo seduto accanto a fuoco, ma non
ho trovato lavoro, e non so dove andare.
Il problema dei soldi
Dopo il ragazzo della Valsesia, in quel 1847, ne arrivano altri sei. In
quei primi mesi i soldi cominciano a diventare un problema drammatico
per don Bosco. Lo saranno per tutta la sua vita. La sua prima
benefattrice non è una contessa, ma sua madre. Margherita, povera
contadina di 59 anni, ha lasciato la sua casa ai Becchi per venire a far
da madre ai barabbotti. Di fronte alla necessità di mettere qualcosa in
tavola per i ragazzi, vende l'anello, gli orecchini, la collana che fino
allora aveva custodito gelosamente. I ragazzi ospitati da don Bosco
diventano 36 nel 1852, 115 nel 1854, 470 nel 1860, 600 nel 1861, fino a
toccare il tetto di 800.
E tra quei ragazzi, qualcuno chiede di «diventare come lui», di spendere
la vita per altri ragazzi in difficoltà. Nascerà così la Congregazione
Salesiana. I primi a farne parte sono Michelino Rua, Giovanni Cagliero
(che diventerà cardinale), Giovanni B. Francesia.
Nell'archivio della Congregazione Salesiana si conservano alcuni
documenti rari: un contratto di apprendistato in carta semplice, datato
novembre 1851; un secondo in carta bollata da centesimi 40, con data 8
febbraio 1852; altri con date successive. Sono tra i primi contratti di
apprendistato che si conservano in Torino. Tutti sono firmati dal datore
di lavoro, dal ragazzo apprendista e da don Bosco. In quei contratti,
don Bosco mette il dito su molte piaghe. Alcuni padroni usavano gli
apprendisti come servitori e sguatteri. Egli li obbliga a impiegarli
solo nel loro mestiere. I padroni picchiavano, e don Bosco esige che le
correzioni siano fatte solo a parole. Si preoccupa della salute, del
riposo festivo, delle ferie annuali. Ma nonostante ogni sforzo, ogni
contratto, la condizione degli apprendisti, in quel tempo, rimane troppo
dura.
Martellare una suola e maneggiare la lesina
Nell'autunno del 1853 don Bosco rompe gli indugi e inizia nell'Oratorio
di Valdocco i laboratori dei calzolai e dei sarti. Quello dei calzolai è
piazzato in un locale strettissimo, accanto al campanile della prima
chiesa che ha appena costruito. Don Bosco si siede a un deschetto, e
davanti a quattro ragazzini martella una suola. Poi insegna a maneggiare
la lesina e lo spago impeciato.
Dopo i calzolai e i sarti vengono i legatori, i falegnami, i tipografi,
i meccanici. Sei laboratori in cui i posti privilegiati sono per «gli
orfani, i ragazzi totalmente poveri e abbandonati». Per questi suoi
laboratori, che presto trapianta in altre opere salesiane fuori Torino,
don Bosco «inventa» un nuovo genere di religiosi: i coadiutori
salesiani. Di uguale dignità e diritti dei preti e chierici, ma
specializzati per le scuole professionali. (Alla morte di don Bosco, le
scuole professionali salesiane saranno 14, distribuite in Italia,
Francia, Spagna e Argentina. Cresceranno fino a toccare il numero di
200, sparse nel mondo).
Parola d'ordine: «Subito»
Nel dialogo tra don Bosco e il primo ragazzo immigrato (I'ha lasciato
scritto lui stesso) c'è la parola «subito». Sembra una parola come tante
altre, invece diventa la parola d'ordine di don Bosco, tirato dentro
l'azione dall'urgenza, dall'impossibilità di aspettare. Nell'incertezza
della prima rivoluzione industriale, nell'impossibilità di trovare belli
e fatti piani e programmi di azione, don Bosco e i primi Salesiani
gettano tutte le loro energie per fare «subito» qualcosa per i ragazzi
in difficoltà. Sono le necessità urgenti dei giovani che dettano loro i
programmi di azione.
I ragazzi hanno bisogno di una scuola e di un lavoro che aprano loro un
avvenire più sicuro; hanno bisogno di poter essere ragazzi, cioè di
scatenare la loro voglia di correre e saltare in spazi verdi, senza
intristire sui marciapiedi; hanno bisogno di incontrarsi con Dio, per
scoprire e realizzare la loro dignità. Pane, catechismo, istruzione
professionale, mestiere protetto da un buon contratto di lavoro
diventano quindi le «cose» che don Bosco e i Salesiani danno con urgenza
ai giovani. «Se incontri uno che muore di fame, invece di dargli un
pesce insegnagli a pescare», è stato detto giustamente. Ma è anche vero
il rovescio della frase: «Se incontri uno che muore di fame, dagli un
pesce, perché abbia il tempo di imparare a pescare». Non basta il
«subito», l'intervento immediato, ma non basta nemmeno «preparare un
futuro diverso», perché intanto i poveri muoiono di miseria.
«Io non ho fatto niente»
Negli anni che seguono, con un lavoro a volte estenuante, don Bosco
realizza opere imponenti. Accanto ai Salesiani fonda l'Istituto delle
Figlie di Maria Ausiliatrice e i Cooperatori Salesiani. Costruisce il
santuario di Maria Ausiliatrice in Valdocco e fonda 59 case di Salesiani
in sei nazioni. Inizia le «Missioni Salesiane» inviando preti,
coadiutori e suore nell'America Latina. Pubblica e scrive lui stesso
collane di libri popolari «per la gente cristiana e i ragazzi del
popolo». Inventa un «sistema di educazione» familiare, fondato su tre
valori: Ragione, Religione, Amorevolezza, che presto tutti riconoscono
come «il sistema ideale» per educare i giovani. Quando qualcuno gli
elenca le opere che ha creato, don Bosco interrompe brusco: «Io non ho
fatto niente. È la Madonna che ha fatto tutto». Gli ha tracciato la
strada con quel misterioso «sogno», quando era un ragazzetto.
Morì all'alba del 31 gennaio 1888. Ai Salesiani che vegliavano attorno
al suo letto, mormorò nelle ultime ore: «Vogliatevi bene come fratelli.
Fate del bene a tutti, del male a nessuno.. . Dite ai miei ragazzi che
li aspetto tutti in Paradiso».
Messaggio di Don Bosco
A distanza di cento anni, don Bosco ha un messaggio da rivolgere ad ogni
giovane:
«Io ero una persona come te.
Ho voluto dare un senso pieno alla mia vita. Con l'aiuto di Dio ho
rinunciato ad avere una famiglia mia per diventare papà, fratello, amico
di chi non aveva papà, fratelli, amici.
Se vuoi essere come me, andremo insieme a spendere la vita in una favela
sudamericana, tra i lebbrosi dell'India, o nella periferia di una città
italiana, dove troveremo tanti poveri, anche se nascosti: poveri di
affetto, di senso della vita, poveri che hanno bisogno di Dio e di te
per vivere. Ma se anche non ti senti di rischiare la vita com'io l'ho
rischiata, ti ricordo una verità importantissima: la vita, questo grande
dono che Dio ci ha dato, bisogna spenderla, e spenderla bene. La
spenderai bene non chiudendoti nell'egoismo, ma aprendoti all 'amore,
all 'impegno per chi è più povero di te».
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